Perché alcune persone e alcune organizzazioni sono più innovative, più influenti e più profittevoli di altre?

A questa domanda risponde Simon Sinek nel suo libro “Partire dal perché” (Franco Angeli editore) in cui l’autore, basandosi sull’esame di innumerevoli casi aziendali, propone un modello, interessante e per alcuni versi anticonvenzionale, di ciò che realmente serve a un leader per guidare e ispirare le persone.

Se osserviamo la comunicazione, sia interna sia esterna, della maggior parte delle organizzazioni possiamo rilevare come esse investano capitali, a volte anche ingenti, per dichiarare che cosa fanno e come lo fanno. Tutto ciò ha sicuramente un valore ma non è sufficiente a garantire risultati duraturi nel tempo. Ci si dimentica, infatti, che a monte deve essere chiaro qual è il perché che muove l’organizzazione, qual è il suo ideale profondo. E’ questa la marcia in più che rende “fedeli” gli acquirenti dei prodotti e dei servizi ed “entusiasti” coloro che lavorano nell’organizzazione.

Per esplicitare questo aspetto nulla è meglio di un esempio concreto. Un esempio che traiamo dalle pagine del libro.

“All’inizio del Novecento, l’avventuriero inglese Ernest Shackleton decise di partire per esplorare l’Antartide. Il norvegese Roald Amundsen era appena diventato il primo esploratore a raggiungere il Polo Sud, lasciando una sola meta ancora da conquistare: l’attraversamento del continente attraverso la punta più meridionale della terra.

La parte terrestre della spedizione avrebbe dovuto iniziare nel gelido mare di Weddell, a Sud dell’America meridionale, e percorrere 1700 miglia attraversando il polo per arrivare fino al mare di Ross, a Sud della Nuova Zelanda. Il costo, secondo le stime fatte da Shackleton all’epoca, sarebbe stato di circa 250.000 dollari. “La traversata del continente antartico sarà il più grande viaggio polare mai tentato”, disse Shackleton a un reporter del New York Times il 29 dicembre 1913. “I terreni sconosciuti che nel mondo attendono ancora di essere conquistati sono sempre meno numerosi, ma ci rimane ancora questa grande opera da compiere”.

Il 5 dicembre 1914 Shackleton partì per il mare di Weddell con un equipaggio di ventisette uomini a bordo dell’Endurance, una nave da 350 tonnellate, costruita con i fondi provenienti da donatori privati, dal governo britannico e dalla Royal Geographical Society. In Europa era scoppiata la prima guerra mondiale e il denaro scarseggiava sempre di più. Le mute di cani erano state acquistate grazie a donazioni degli scolari inglesi.

Ma l’equipaggio dell’Endurance non avrebbe mai raggiunto il continente antartico.

A pochi giorni dall’isola della Georgia del Sud, nell’Atlantico meridionale, la nave incontrò miglia e miglia di banchisa e fu intrappolata da un inverno rigido e precoce. I ghiacci racchiusero la nave “come una mandorla in una caramella mou”, scrisse un membro dell’equipaggio. Shackleton e il suo equipaggio rimasero bloccati in Antartide per dieci mesi mentre l’Endurance andava lentamente alla deriva verso nord, fino a quando la pressione dei lastroni di ghiaccio finì per schiacciare la nave. Il 21 novembre 1915 l’equipaggio la guardò affondare nelle acque gelide del mare di Weddell.

Arenati sui ghiacci, gli uomini dell’Endurance si imbarcarono sulle tre scialuppe di salvataggio e riuscirono ad atterrare sulla piccola isola dell’Elefante. Qui Shackleton lasciò tutto l’equipaggio, tranne cinque uomini, con i quali partì per andare a cercare soccorso, sfidando una traversata di ottocento miglia di mare mosso. Alla fine ci riuscì.

L’aspetto più sorprendente dell’intera storia dell’Endurance, però non è la spedizione in sé e per sé. E’ il fatto che lungo tutto il calvario nessuno sia morto. Non ci furono né episodi di cannibalismo né ammutinamenti.

Non si trattò di un caso fortunato. Shackleton aveva assunto le persone adatte. Aveva trovato gli uomini giusti per quel lavoro. Quando si popola un’organizzazione con persone adatte, che condividono gli stessi ideali, il successo arriva. E come aveva fatto Shackleton a trovare questo fantastico equipaggio? Con una semplice inserzione sul Times di Londra.

Confrontiamo ora la storia di Shackleton con i metodi di ricerca e selezione del personale usati oggi. Anche noi pubblichiamo delle inserzioni sui giornali, o sui loro equivalenti moderni, come Craigslist o Monster.com. A volte incarichiamo una società di selezione di trovare qualcuno per noi, ma il processo è in buona sostanza lo stesso. Stendiamo un elenco di requisiti per la posizione e ci aspettiamo che il candidato migliore sia quello che li soddisfa al meglio.

Il problema è però il modo in cui sono scritti gli annunci.

 Tutti vertono sui che cosa anziché sui perché. Una tipica inserzione, per esempio, potrebbe recitare così: “Ricerchiamo un direttore amministrativo con almeno cinque anni di esperienza e comprovata esperienza professionale nel settore. Il candidato avrà la possibilità di inserirsi in un’azienda leader in rapida crescita, con retribuzione e benefit di alto livello”. Un annuncio come questo può attrarre file di candidati, ma come facciamo a sapere qual è quello adatto?

L’annunci pubblicato da Shackleton per trovare i membri del suo equipaggio era completamente diverso. Non si limitava a dire che cosa stava cercando. Il testo non diceva: “Si cercano uomini per una spedizione. Minimo cinque anni di esperienza. E’ richiesta una buona capacità di issare la randa. I candidati avranno la possibilità di lavorare con un ottimo capitano”.

Shackleton cercava persone che avessero qualcosa in più. Voleva un equipaggio che potesse provare un senso di appartenenza a una spedizione come quella. Ecco il vero testo dell’annuncio: “Si cercano uomini per un viaggio pericoloso. Salario modesto, freddo intenso, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno sani e salvi non garantito. Onori e riconoscimenti in caso di successo”.

Gli unici a rispondere furono quelli che avevano trovato l’annuncio entusiasmante. Amavano le difficoltà insormontabili. Erano dei sopravvissuti. Shackleton assunse solo persone che credevano nei sui stessi ideali. La loro capacità di sopravvivenza era garantita. Il senso di appartenenza dei dipendenti è una garanzia di successo, perché li spinge a impegnarsi al massimo e a cercare soluzioni innovative non per l’azienda, ma per se stessi.”

Possiamo, quindi, affermare che tutti i grandi leader hanno in comune la capacità di trovare persone adatte alla loro organizzazione, persone che condividono i loro stessi ideali. Persone alle quali è chiaro il perché della loro impresa.

Forse è proprio questa “la marcia in più” …… !