Il filosofo Ludwig Wittgenstein mise in evidenza che «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».

Un ammonimento sul come i concetti e le parole siano preziosi occhiali per interpretare la realtà. Ma se la realtà cambia allora anche gli occhiali devono cambiare, pena l’incapacità di interpretare ciò che di nuovo ci viene proposto. Il rischio maggiore dell’incomprensione deriva proprio dall’ostinazione a impiegare universi semantici obsoleti e dall’incapacità di adottare framework di analisi nuovi.

Come è ormai evidente, viviamo in un momento storico di grandi crisi e rapidi cambiamenti. Nei pochi anni trascorsi di questo secolo, abbiamo già dovuto fare i conti con tre crisi sistemiche: climatica, economica, politica con la messa in discussione del concetto di Stato Nazione. In questi ultimi mesi ci siamo trovati ad affrontare una crisi sanitaria. In mezzo a tutto questo si è imposta la rivoluzione digitale.  Crisi e cambiamenti che difficilmente potranno essere affrontati con i modelli e i modi di pensare fino a oggi utilizzati.

Ricordiamo l’avvertimento di Albert Einstein: «Se l’umanità vuole sopravvivere e raggiungere maggiori livelli, è essenziale un nuovo tipo di pensiero».

Eppure, seguendo i dibattiti sui media, generalisti o specializzati che siano, o ascoltando i manager di molte aziende, se ne ricava una precisa sensazione: che si rimanga sempre ancorati allo stesso “modello di gioco”, che si usino sempre gli stessi riferimenti e lo stesso linguaggio.

Per quanto riguarda la digital transformation, pensiamo alle architetture “a piattaforma” che stanno emergendo sulla spinta delle innovazioni digitali e alle altre evoluzioni come le Blockchain, la Machine Economy, le DAO (decentralized autonomous organization). Esse rappresentano un forte elemento di novità nel panorama economico contemporaneo. Novità che le aziende più tradizionali faticano a comprendere a causa, a nostro giudizio, di un ritardo di pensiero e, quindi, di linguaggio principalmente radicato in coloro che ricoprono ruoli manageriali.

All’orizzonte si profila un mondo automatizzato, cioè generato, movimentato e mantenuto dalle macchine in forme e dinamiche auto-generative e neo-automatizzanti che sono diverse da quelle che l’umanità ha conosciuto nel corso della sua storia. Siamo di fronte a un cambio di paradigma epocale che culture, istituzioni e imprese faticano a comprendere e che sono spesso impreparate a cogliere.

A fronte di questa crescente e incisiva novità i nostri modi di pensare e di esprimerci scalfiscono a mala pena la superficie, impossibilitati come sono a riconoscere la natura profonda di questa nuova realtà.

Non tanto e non solo nella sua portata quantitativa, ma soprattutto nel suo impatto trasformativo e qualitativo. Non tanto e non solo nella sua dimensione tecnologica progressiva e pervasiva, ma in particolare nella sua dimensione ontologica. Incapaci di cogliere questo cambiamento paradigmatico continuiamo a guardare ai fenomeni digitali e dell’automazione attraverso categorie concettuali e modelli speculativi obsoleti. Universo digitale e automazione da leggere con lenti speculative e anche filosofiche nuove, come mette acutamente in evidenza Cosimo Accotto (filosofo di formazione e research affiliate al MIT di Boston). «È tempo di iniziare un percorso speculativo che sia in grado di raccontare e re-immaginare, con una certa radicalità di pensiero, l’automazione».

Seguiamo il dibattito in corso.

Philip E. Auerswald è un autore ed economista, cofondatore e coeditore americano di Innovations. Nel suo libro più recente “L’economia del codice”, una storia di quarantamila anni, spiega come il codice sia stato un fattore chiave dello sviluppo umano. «Il codice può includere istruzioni che seguiamo consciamente e di proposito e quelle che seguiamo inconsapevolmente e intuitivamente. Il codice può essere compreso tacitamente, può essere scritto o ancora incorporato nell’hardware. Il codice può essere archiviato, trasmesso ricevuto e modificato. Il codice cattura la natura algoritmica delle istruzioni tanto quanto il loro carattere evolutivo».

Se pensiamo in termini di lungo periodo, ci rendiamo conto come l’evoluzione economica proceda per salti tecnologici che ridisegnano le forme e le dinamiche del codice. Auerswald ci invita a considerare questi salti storici ciclici come biforcazioni: <<A ogni stadio di questo processo, elementi del lavoro precedentemente eseguiti da umani possono essere svolti da una macchina o da un computer. Allo stesso tempo, gli umani sono potenziati a fare lavori per tipo e per tasso in precedenza non possibili da fare. Questo intendo per biforcazione sequenziale del lavoro. Possiamo andare indietro di quanto vogliamo. Diecimila anni fa, le tecnologie agricole forzarono una biforcazione del lavoro. Quattrocento anni fa la biforcazione fu causata dalle tecnologie del commercio. Un secolo fa le tecnologie manifatturiere forzarono un’altra biforcazione del lavoro e oggi le tecnologie dell’automazione e dell’intelligenza artificiale stanno facendo lo stesso>>.

D’altra parte, Daniel Kahnemann, psicologo e autore del best seller “Thinking Fast and slow” nonché premio Nobel per l’economia, in una recente conferenza sull’Intelligenza Artificiale ha sostenuto che non ci sono capacità umane, cognitive ed emozionali che le macchine non saranno in grado di emulare. Un bello choc!

Michal Gurgul nel suo testo “Collaborative Robots” mette in evidenza come: «La cooperazione tra umani e robot non è solo una sfida tecnica ma anche sociale e psicologica. I robot industriali classici devono essere veloci ed efficienti. Raggiungono questi obiettivi grazie a velocità di movimento molto alte e alla possibilità di una rapida frenata o, viceversa, di una veloce accelerazione. Poiché, sono separati dagli altri lavoratori da recinzioni di sicurezza, non rischiano di causare alcun problema ai lavoratori umani nei dintorni. L’opposto è vero invece quando nulla ci separa dal robot come nel caso dei dispositivi collaborativi. Basandosi sulle espressioni facciali, sul tono di voce e sulle reazioni dei lavoratori con i quali interagiscono si può predire il reciproco futuro comportamento. Noi lo facciamo inconsciamente per tutto il tempo. Ma se cercassimo di analizzare un braccio robotico per cercare di capire i suoi prossimi movimenti potremmo sorprenderci a scoprire che le sole cose di cui saremo sicuri sono il marchio del brand e il modello».

Il dibattito corrente, quindi, si divide tra chi ritiene plausibile che si ripeta similarmente quanto accaduto nelle altre rivoluzioni e biforcazioni tecnologiche e chi, invece, immagina che questa volta sarà tutto molto diverso. Perché l’impatto trasformativo profondo dell’intelligenza artificiale e della robotica autonoma, su scala planetaria e distribuito sull’intera economia, farà sì che nulla potrà essere come prima.

Al di là delle singole interpretazioni, si può comunque rilevare lo sforzo di elaborazione; il cercare nuove modalità di pensiero e nuovi linguaggi.

«I mutamenti che la tecnologia ci propone sono molto più grandi di quanto qualsiasi persona possa immaginare. Il contesto è mutato e muta continuamente. Ciò significa che la saggezza del passato non sarà più applicabile. Dobbiamo pensare a una nuova saggezza, una saggezza che potremmo definire digitale», come ci suggerisce Marc Prensky (uno dei maggiori esperti mondiali del rapporto tra tecnologia e apprendimento).

Una nuova saggezza perché essa non porta con sé protocolli standardizzati a molti tipi diversi di problemi. Al contrario, rappresenta la capacità di comprendere il carattere specifico di luoghi, persone e momenti particolari, consentendo di individuare l’azione e la decisione più efficace per il bene comune. Perché porta ogni individuo (secondo i suoi gradi di responsabilità) costantemente ad affrontare trade-off, imprevisti, ambiguità e paradossi.

«Siamo solo all’inizio embrionale di un nuovo sviluppo di cui riusciamo a intravedere, per ora, un primo orizzonte delle possibilità. L’Homo Habilis con cui ci siamo rappresentati finora potrebbe presto lasciare il posto all’Homo Prospectus. Non vivremo più residuati nel passato, ma saremo istanziati dal futuro. Un futuro in cui una filosofia «artificiale» avrà proprio il compito di illuminare, con maggiore consapevolezza, il cammino di questo nuovo Homo Prospectus», come ci suggerisce Cosimo Accoto (filosofo di formazione e research affiliate al MIT di Boston).

Una nuova filosofia che ci aiuti a pensare e a “mettere ordine” in tutte quelle questioni o vicende in cui non siamo in grado di raggiungere alcuna certezza. Perché la filosofia è una disciplina che non solo problematizza per vocazione, ma sa mettere in discussione tutto, compresa sé stessa.

Tutto ciò implica che alla base ci sia un significativo “bisogno” di formazione per tutti noi, a partire dal sistema scolastico. Nasceranno nuovi lavori ma le persone non sono state adeguatamente preparate con nuove conoscenze, saperi e pratiche professionali. Non parliamo di competenze tecniche ma anche di psicologia e socializzazione con i colleghi robot collaborativi (detti cobot).

C’è da augurarsi che si sviluppi una profonda consapevolezza da parte di chi governa le imprese e le istituzioni. Pena l’incapacità di affrontare in modo equo ed equilibrato uno sviluppo tecnologico che comunque procede e procederà a grandi passi.